La 15esima edizione del Florence Korea Film Festival apre con la proiezione dell’ultima fatica di Jee-woon Kim, The Age of Shadows (2016), film presentato al Festival di Venezia e proposto per la categoria miglior film straniero agli Oscar di quest’anno. La vicenda, una spy story ambientata nel bel mezzo dell’occupazione Giapponese della Corea alla fine degli anni Venti, è un magnifico esempio di commistione tra cinema di genere – con spettacolari sequenze d’azione in cui la mdp, più che seguire e mostrare i personaggi, sembra essere fisicamente coinvolta negli scontri a fuoco e negli inseguimenti – e reperto storico – in cui gli eventi trattati mantengono con la realtà fattuale un rapporto di verosimiglianza.

Da qualche anno a questa parte, il cinema di genere spionistico sembra essere tornato in àuge un po’ ovunque, ma in una veste nuova e con una missione diversa. La Storia non è più raccontata e rivelata per opposizioni ma appare strumentalizzata, ridotta a escamotage per mettere in scena le gesta di eroi desiderosi di uscire dall’ombra per conquistarsi – se non l’ammirazione – la comprensione, la pietà e l’affetto del pubblico. Lo sguardo della macchina da presa finisce così per aggirare l’evento storico, appiattito su maestosi fondali a tema, per occuparsi di uomini dal carisma seducente. Il cinema occidentale recente sembra aver dedicato a questi eroi ogni singola inquadratura, escludendo un mondo ridotto a metafora e perciò inscatolato, etichettato e reso pronto all’uso. Se con Il Ponte delle Spie (2015) Spielberg costruiva un intero film sui volti di Hanks e Rylance, in cui nucleo narrativo era la lotta per la dignità personale, sottratta, barattata, contraffatta e calpestata dalle contingenze, con Allied (2016) Zemeckis snaturava i codici di un genere per trastullarsi con bergmaniane beghe matrimoniali. Si tratta di storie di uomini e donne speciali, agenti speciali, al di sopra delle parti e degli eventi, il cui dramma personale finisce per contare più del dramma storico in cui sono calati.

Completamente diverso è l’approccio di The Age of Shadows che non solo si rifiuta di fuggire dagli eventi, ma accetta che essi intacchino ogni presa di posizione, ogni scelta o indole morale dei personaggi, lasciando che essi siano e restino ombre, figure indistinte e sfuggenti, biglie impazzite all’interno di un flipper. Nel film di Jee-woon Kim a emergere più di ogni altra cosa è la riflessione sul patriottismo, in cui si ritrova spazio per la molteplicità, per numerosi punti di vista, per gli incontri e gli scontri plateali, e in cui tornano a prevalere il senso di collettività e di lotta comune a scapito dell’individualismo e dell’introspezione, dell’impresa eccezionale e del sacrificio personale. E forse è proprio per questo che Jee-woon Kim non avverte la necessità di servirsi di trucchi, di superare i generi, giocare con i loro codici o di scavalcare la tradizione.

The Age of Shadows è un film vecchio stampo – più vicino al western che allo spy movie – un classico che predilige tematiche intramontabili e vicende esemplari, che intende recuperare vecchi ideali (etici ed estetici) per metterli in scena nella maniera più chiara e funzionale possibile. A minare la completa efficacia del film – aldilà della splendida regia che riconferma l’abilità di questo filmmaker – interviene una sceneggiatura non proprio fluente, che fatica a coinvolgere lo spettatore e che, a tratti, complica inutilmente l’intreccio, ma è tutto un gran bel vedere!



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